Berlino, 8 nov – Recentemente su queste colonne abbiamo cercato di riportare il vero volto dell’onda immigratoria, che sta travolgendo l’Europa e in particolare la Germania, che la grande stampa sta disperatamente tentando di edulcorare e minimizzare. Lasciando però aperte molte domande, tra cui due in particolare: perché la guerra all’Europa, e perché proprio ora?
Mentre abbiamo già dato conto di interpretazioni autorevoli che disegnano un quadro ben orchestrato di indebolimento non solo degli stati nazionali ma della stessa identità europea, con tanto di grandi vecchi agenti ormai allo scoperto, come George Soros col suo impero finanziario e presuntamente filantropico, l’urgenza testimoniata dalla dimensione e dalla tempistica dei fatti lasciano intravedere qualcos’altro di assai più immanente e materiale.
Abbiamo cercato di spiegare come la crisi deflattiva delle materie prime, petrolio in testa, insieme al carico del debito e alla struttura stessa del sistema finanziario, costituisca un reale pericolo per la disponibilità futura delle stesse materie prime necessarie al funzionamento e alla crescita del capitalismo globalizzato, e di come sia fortemente probabile una prossima crisi recessiva mondiale.
In questo quadro, l’Europa appare come un vaso di coccio tra troppi vasi di ferro: ormai virtualmente priva di materie prime domestiche, dotata però di un vigoroso apparato industriale e manifatturiero molto energivoro, si pone come un formidabile competitore per le risorse, purtroppo senza la copertura di un apparato militare nemmeno lontanamente all’altezza del livello della competizione.
La delocalizzazione industriale suicida (per l’Europa) degli ultimi 30 anni ha nel frattempo consentito l’accesso di altre economie a bassa intensità salariale (leggasi schiavitù del lavoro) alle competenze e capacità necessarie a supplire alla produzione dei beni di largo consumo, a partire dalla Cina e a seguire la maggior parte degli altri paesi asiatici.
In pratica, dell’Europa c’è sempre meno bisogno, se non fosse per il patrimonio storico e culturale particolarmente gradito anche alle élite finanziarie internazionali e concentrato sulla sponda settentrionale del Mediterraneo. Ma non certo o non tanto in Germania, paese che – oltre ad essere un forte consumatore di materie prime energetiche – pone per oltreatlantico l’antico rischio di una saldatura con una Russia che si vede tuttora europea (da cui, recentissimo, l’appello quasi struggente del ministro degli esteri del Cremlino Lavrov a finirla immediatamente con il suicidio dell’invasione) ma che per necessità si volge a est.
Seppellito, infine, sotto i bombardamenti russi il sogno delle petromonarchie del golfo, sostenute dagli Usa, di inondare l’Europa col loro gas, e della Turchia pure più americana che europea di goderne i favolosi diritti di transito, e in via di ampliamento e completamento dall’altra parte del continente euroasiatico la rete di gasdotti e oleodotti tra Siberia e Cina, la marginalizzazione e il declino dell’Europa, se non convengono ai produttori di petrolio già fuori mercato per gli alti costi di estrazione combinati con i bassi prezzi di vendita, nonché ad alcuni paesi esportatori anche di primo piano come l’Arabia Saudita, fanno invece un gran comodo agli Usa il cui petrolio domestico è per legge destinato al solo mercato interno, la cui estrazione ha iniziato a declinare, forse in modo irreversibile, da alcuni mesi, e le cui importazioni sono paragonabili a livello pro-capite a quelle europee (ma con un consumo, ancora pro-capite, addirittura doppio rispetto a quello del vecchio continente).
Il sintomo americano del declino estrattivo è proprio quello che con tutta probabilità spaventa di più i think-tank d’oltreoceano, cioè la prospettiva di trovarsi in pochi anni a corto di fornitori e di forniture di oro nero, una percentuale non trascurabile del quale è indirizzata al pachidermico apparato militare-industriale della superpotenza ancora proiettata simultaneamente in ogni angolo del globo.
Il problema, infatti, è che circa 10 milioni di barili al giorno sui 94 prodotti ogni giorno (il 10,6%) sono di fatto anti-economici ai prezzi attuali e verosimilmente futuri, mentre i costi di estrazione dei nuovi giacimenti, così come dei più vecchi già in declino, continuano mediamente ad aumentare.
Disgraziatamente, mentre l’Europa nel suo complesso ha già perso una capacità di consumo di petrolio nella misura del 17% dal 2006 al 2014, imputabile tra gli altri al declino economico dell’Italia ma molto meno alla Germania, la velocità di estrazione di petrolio nel vecchio continente, Norvegia inclusa, produttiva è crollata del 50% dal 2002, mantenendo di fatto inalterata la pressione europea sulla risorsa, cioè le importazioni – inchiodate sui nove milioni di barili al giorno negli ultimi 10 anni.
Ammesso che in Europa non si trovino altri giacimenti abbastanza voluminosi, tali da compensare il declino estrattivo corrente e ridurre le importazioni, che lo stile di vita americano continui a non essere negoziabile, infine che nel resto del mondo non si scoprano risorse petrolifere tali non solo da fornire a costi di estrazione contenuti i 10 milioni di barili fuori mercato ma di aumentare la produzione di oltre un milione di barili al giorno ogni anno – necessari per sostenere la crescita globale – l’unica soluzione-tampone appare quella di abbattere definitivamente il consumo europeo. Tertium non datur.
Di conseguenza, chiedendosi a chi giova economicamente il declino dell’Europa attraverso l’immigrazione selvaggia, massiva e dequalifica, la risposta può trovarsi senz’altro in quelli che sono stati i nostri principali alleati dal secondo dopoguerra che, forse non per caso, hanno accelerato e praticamente concluso, probabilmente non senza pressioni anche indebite, l’iter di approvazione del trattato di partnership commerciale trans-pacifica (Tpp), mentre traspare un’urgenza decisamente inferiore rispetto all’omologo trattato trans-atlantico (Ttip), sia da parte americana che europea, e che, probabilmente, non sarà concluso fino al termine del mandato del presidente Obama (se mai lo sarà).
Senza considerare, infine, che comunque – una volta ridotta all’impotenza economica l’Europa – il confronto si sposterà una volta per tutte sulla contrapposizione più o meno calda tra i due grandi blocchi militari ed economici che si stanno disegnando in questi mesi: quello del Pacifico, rappresentato dal Tpp, con gli Usa protettori militari, gli Stati del golfo fornitori energetici e gli altri paesi destinati alla produzione, e quello euro-asiatico con la Russia in veste di principale gendarme e – insieme a Iran, Iraq e altri – fornitore energetico, e la Cina principale motore dell’economia manifatturiera.
Francesco Meneguzzo