Veniamo ai numeri. Le prime ipotesi allo studio vedono la possibilità di alienare il 4% di Eni in mano al ministero dell’Economia, percentuali analoghe per quanto riguarda Snam e Terna detenute da Cassa depositi e prestiti e di quotare in borsa, sempre in ambito Cdp, Sace e Fincantieri. Prendiamo Eni a titolo di esempio. Ai correnti valori di borsa la cessione porterebbe allo Stato meno di 3 miliardi di euro. Questi proventi finirebbero direttamente al fondo ammortamento del debito pubblico. Un debito che veleggia attorno ai 2000 miliardi. L’incidenza sarebbe dunque nell’ordine dello 0.15% sul totale. E poco di più aumenterebbe con le cessioni o quotazioni delle altre realtà oggetto del contendere. Il 5% di Terna vale infatti circa 350 milioni e poco più del doppio la quota di Snam. E però, in questa seconda eventualità l’incasso non sarebbe immediato ma a valere sulla quota di utile che Cdp intenderà staccare al ministero che a sua volta è solo uno dei vari azionisti dell’ente.
Si rinuncia insomma a importanti dividendi (anch’essi destinati per scelta legislativa alla riduzione dell’indebitamento delle amministrazioni) per ottenere qualche risorsa in più da spesare nel breve periodo. La stessa strategia di cortissimo termine perseguita all’inizio degli anni novanta quando il debito non solo non fu ridotto ma, anzi, fu lasciato in eredità se possibile in misura maggiore rispetto a prima.
Per quanto riguarda invece il controllo strategico è vero che attraverso il sistema del golden power (versione depotenziata della golden share) si può evitare l’ingresso di soggetti “ostili”, ma è altrettanto vero che queste società in via di privatizzazione sono società per azioni. Il quadro normativo e’ a tutti gli effetti quello del diritto privato, quindi con le conseguenti regole di funzionamento dettate. Nello specifico per quanto riguarda l’assemblea e le decisioni che questa è chiamata a prendere. Già a maggio di quest’anno nel caso di Eni lo Stato é finito in minoranza. Vero che non si trattava di un’assemblea chiamata a decidere su questioni essenziali come l’approvazione del bilancio, del piano industriale o la nomina del consiglio di amministrazione; qualora ciò dovesse accadere gli effetti che si potrebbero produrre non sono scontati. E tale opportunità verrebbe ancora più a concretizzarsi laddove il governo, invece che rafforzare la propria posizione, la diluisse. Con il risultato, oltre ai dividendi, di perdere importantissime leve di controllo e cinghie di trasmissione delle (pur scarse) scelte di politica industriale.
Filippo Burla