Roma, 19 ott – In questi giorni il rapporto fiduciario tra politica e ristoratori è al suo minimo storico. Dopo il caso Marino, anche il premier Matteo Renzi pare abbia qualche problema a giustificare i suoi pasti luculliani. Ma, non parliamo tanto della trattoria di Firenze dove era solito trattenersi con il suo cerchio magico. C’è di più. La metafora, infatti, riguarda la prossima legge di Stabilità. L’oste, in questo caso, ha un nome strano: Valdis Dombrovskis, vice presidente della Commissione Europea. Dombrovskis, nei giorni scorsi, aveva mostrato qualche perplessità sulla nostra manovra finanziaria. Ma Renzi lo ha subito bloccato: “Se Bruxelles boccia la Legge di Stabilità tu gliela restituisci così com’è e non cambia niente”. Finalmente un premier che difende la nostra sovranità! In realtà, però le cose vanno diversamente. Per Renzi è indispensabile il sostegno della Ue per realizzare buona parte delle cose che ha promesso nella Legge di Stabilità. Due su tutte: il taglio dell’Ires (ex- Irpef imposta sulle persone fisiche) ed edilizia scolastica.
Vediamo perché. L’Italia ha bisogno dei liquidi di Bruxelles per affrontare l’emergenza migranti. La spesa sostenuta dall’Italia per fronteggiare questi flussi migratori è stimata per quest’anno in oltre 3,3 miliardi di euro, circa il triplo di quella di tutto il biennio 2011-2013. Solo se l’Europa accetterà di valutare l’afflusso di profughi che viene dal Nord Africa come un “evento eccezionale ai sensi dell’articolo 5.1 e articolo6.3 del Regolamento CE 1466/97 e dell’articolo 3 del Fiscal Compact” Palazzo Chigi avrà mano libera per realizzare quanto scritto nelle slides renziane. Insomma il boyscout fiorentino ha ben poche ragioni per fare il gradasso.
Certo, in patria il clima che si respira è ben diverso. Tutti i poteri forti fatta eccezione per i sindacati sono filogovernativi. Perfino Bankitalia si è sbilanciata. Nell’ultimo bollettino economico si osserva, infatti, che “La ripresa dei consumi e il graduale riavvio degli investimenti, dopo anni di flessione della domanda interna, stanno contribuendo all’espansione del prodotto. L’economia dall’inizio dell’anno ha ripreso a crescere a ritmi intorno all’1,5% in ragione d’anno. I segnali più recenti, inoltre, indicano che anche il terzo trimestre avrà lo stesso passo. Il dato sul Pil 2015 inserito nel Def (+0,9% dal precedente +0,7%) è coerente con l’andamento della congiuntura che mostra, per la domanda interna, un quadro più favorevole di quanto atteso in precedenza”. Da via Nazionale non manca anche il plauso per il Jobs act. Nel Bollettino si legge che: “Nei primi otto mesi dell’anno l’occupazione ha registrato un incremento dello 0,8 per cento e che l’aumento del lavoro dipendente, oltre a riflettere la ripresa ciclica, ha beneficiato dei recenti provvedimenti adottati dal governo (Jobs act e decontribuzione) ”.
Non parliamo, poi, di Confindustria. Se non sono sufficienti le entusiastiche dichiarazioni di Giorgio Squinzi, basta leggere il Sole 24 Ore: in questi giorni sembra il foglio delle offerte del supermercato. Ogni proposta contenuta nella Legge di Stabilità è esaltata con toni ad dir poco apologetici.
Ma non tutte le associazioni datoriali, però, condividono l’approccio di Viale dell’Astronomia. Ad esempio Unimpresa, organizzazione nata nel 2003 per rappresentare le piccole e medie imprese così come individuate dalle norme dell’Unione Europea (regolamentazione del 6/5/2003 n. 1422). Unimpresa ha mostrato i punti deboli di questa manovra finanziaria. Basterà citarne due.
In primo luogo il taglio al 40 per cento degli sgravi contributivi previsti dal Jobs Act. È bene ricordare che il timido aumento dei contratti a tempo indeterminato è dovuto solo ed esclusivamente al taglio dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro. “Cancellare gli sgravi fiscali significa di fatto eliminare l’unico stimolo per le imprese a creare nuova occupazione, a stabilizzare i precari e a far emergere il sommerso”, ha osservato il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi.
In secondo luogo, parliamo di revisione della spesa, per gli anglofoni spending review. Con questa espressione si intende un processo volto a migliorare l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica attraverso la sistematica analisi della Pa nelle sue strutture organizzative statali e territoriali. Insomma, il Governo prima di mettere mano al portafogli deve capire come i soldi verranno spesi. Questo tema, però, in vista delle amministrative della prossima primavera sembra essere accantonato. Su questo punto il rottamatore si è calmato rispetto ai tempi della Leopolda.
Il centro studi di Unimpresa, infatti, sottolinea: “Le uscite saliranno costantemente rispetto agli 826,2 miliardi del consuntivo 2014. Nel 2015 saliranno a 831,5 miliardi, nel 2016 a 840,4 miliardi, nel 2017 a 842,6 miliardi, nel 2018 a 853,7 miliardi e nel 2019 a 866,1 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento della spesa pubblica pari a 39,8 miliardi (+4,82%)”.
Attenzione però: non si tratta di spesa pubblica volta ad investimenti ma di un aumento dei costi per tenere in piedi una burocrazia bulimica. L’incremento è legato esclusivamente alle uscite correnti (acquisti, appalti, stipendi) che, nel quinquennio, aumenteranno di 43,2 miliardi (+6,24%). Resta invariata, invece, la voce “uscite in conto capitale”, che corrisponde agli investimenti pubblici, stabile attorno a circa 60 miliardi l’anno: nel quinquennio si registrerà una riduzione pari a 1,1 miliardi (-1,95%).
Come si vede al di là dei proclami sui tagli alle tasse è facile vedere come si tratta solo di provvedimenti tampone: bonus, premi e ricchi cotillon. I conti non tornano e non torneranno. La spesa pubblica clientelare fiorirà come sempre, gli investimenti pubblici, invece, possono sempre aspettare.
Renzi, insomma non è Keynes. Al massimo è un Ciriaco De Mita 2.0.
Salvatore Recupero