Roma, 21 dic – Sono questi i giorni nei quali cominciano a circolare le prime bozze dei decreti attuativi del Jobs act. Una legge delega dalla vita non facile, fra spaccature nel Partito Democratico e nette prese di posizione sull’iter della riforma del lavoro. A partire da quella del ministro Poletti, che ha perentoriamente escluso qualsiasi possibilità di trattativa in materia: il governo si impegnerà a «discutere con le parti sociali, raccogliere le istanze e le sollecitazioni, ma poi prenderà le sue decisioni nel rispetto della delega».
L’impianto complessivo della legge mira ad introdurre aspetti di cosiddetta “flessicurezza”, espressione che sottende l’assicurare un’occupazione stabile nel tempo (non necessariamente presso lo stesso datore di lavoro) e al medesimo tempo la garanzia di misure a sostegno del reddito in caso di perdita del posto. Da qui le novità che saranno via via introdotte per superare definitivamente l’articolo 18, potenziare l’Aspi, riordinare i contratti.
Fra i punti destinati a far più discutere vi è quello relativo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che rientrano nella categoria dei licenziamenti economici. L’ipotesi del governo è di introdurre, in questa casistica, anche la fattispecie della perdita del posto di lavoro per scarso rendimento produttivo. Una norma, sia pur ancora accennata e che non rientra nelle prime bozze in circolazione, che ancor prima di nascere monta non poche polemiche.
«Già oggi la giurisprudenza è pacifica sul punto che lo scarso rendimento può costituire anche giustificato motivo oggettivo di licenziamento», ha commentato Pietro Ichino (Scelta Civica), fra i maggiori sostenitori dell’intera riforma. Parere decisamente contrario ha espresso invece il democratico Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro: «Qui il motivo non sarebbe più oggettivo ma soggettivo: insomma si rientra nel campo dei licenziamenti disciplinari che, anche con le nuove regole scritte dal governo Renzi, prevedono in alcuni casi il reintegro». La norma, spiega sempre Damiano, sarebbe «una modalità arbitraria e unilaterale che consegnerebbe nelle mani del solo datore di lavoro il destino dei suoi dipendenti».
Il rischio, su cui in molti concordando, è che si apra la porta ad un’eccessiva discrezionalità: come definire il rendimento, in che modo misurarlo senza ledere i diritti dei lavoratori e come parametrare l’indice per renderlo effettivamente fruibile in sede di eventuale giudizio, sono solo alcuni degli interrogativi che si sollevano.
Filippo Burla