La crisi di governo rischia di mettere temporaneamente in archivio il dibattito sul futuro delle attività riunite sotto il nome dell’Ansaldo. Non è infatti un mistero che il dossier rientri tra i “caldi” sui tavoli dei dicasteri interessati e fin anche sulla scrivania del premier Enrico Letta.
L’insorgere della volontà di addivenire ad una privatizzazione de facto, pur mascherata dall’espressione “ricerca di un partner industriale”, è dovuta alle difficoltà nelle quali naviga Finmeccanica. L’amministrazione delegato Alessandro Pansa sta infatti orientato la gestione del gruppo nel focus in settori tra loro complementari: aeronautica e sistemi per la difesa, deconsolidando dal perimetro tutta l’area del civile. Si tratta nella sostanza di concentrarsi su quel che in termini di economia aziendale è il core business. Una strategia che non è del tutto priva di una sua logica dal punto di vista dell’efficientamento complessivo.
Il fulcro della questione si snoda tuttavia anche attorno ad altri tre fattori: la rilevanza strategica di attività che spaziano dall’energia alle costruzioni ferroviarie, i livelli occupazionali, la politica industriale considerando anche l’ampio indotto che tali settori hanno creato attorno a loro. E’ in questo contesto che si auspicava e si auspica un intervento diretto da parte dello Stato al fine di evitare l’ennesima cessione di asset nazionali in mani straniere.
Una delle opzioni al vaglio è quella del Fondo Strategico Italiano, costituito in seno alla Cassa Depositi e Prestiti per volontà dell’ex ministro Giulio Tremonti allo scopo di entrare nel capitale di imprese che operino, tra gli altri, nei settori delle infrastrutture, dei trasporti e dell’energia. Tali partecipazioni non possono tuttavia essere di maggioranza e le società obiettivo devono rispondere a requisiti di equilibrio finanziario, economico e patrimoniale. Sono questi i principali problemi che si frappongono (il secondo limitatamente al caso AnsaldoBreda) qualora Finmeccanica dovesse optare per la cessione dell’intero pacchetto azionario in suo possesso.
La seconda alternativa vede invece protagonista Fintecna, la controllata sempre Cdp che già detiene il possesso della totalità di Fincantieri. Non sussistendo in questo secondo caso obiezioni di carattere tecnico, ve ne è però una di ordine politico: da più parti si è cominciato ad alzare la guardia sul rischio che la Cdp possa trasformarsi in una sorta di “nuova Iri”. Rischio in realtà inesistente se non altro perché la Cassa, in quanto attuale azionista di controllo di una ampia platea di importanti società quali Eni (la prima per capitalizzazione nel piatto mercato di Borsa Italiana, per inciso), Snam, Terna, Sace, Poste Italiane già svolge questa funzione. E con ottimi risultati, basti pensare alle innumerevoli volte in cui la solida s.p.a. di via Goito è stata presa in considerazione come possibile “cavaliere bianco” per affrontare l’annoso problema della mole del debito pubblico. Al che il suo intervento come azionista di ultima istanza andrebbe ben oltre la diatriba sulla ricostituzione delle partecipazioni statali; sarebbe anzi fin desiderabile e opportuna.
Filippo Burla