Taranto, 12 mag – La vertenza dei lavoratori dell’Ilva di Taranto si è di nuovo arenata. Sin dall’inizio la strada per l’intesa tra i “nuovi padroni” di Arcelor Mittal e le maestranze tarantine sembrava in salita. Giovedì scorso però si è consumata la rottura definitiva: i sindacati hanno lasciato il tavolo delle trattative parlando di “testo non condivisibile” perché “gli esuberi restano”. A nulla è valsa la proposta di accordo formulata da Carlo Calenda. Il ministro dello Sviluppo Economico si era impegnato affinché a tutti i dipendenti fosse garantita “continuità occupazionale a tempo indeterminato”. Questo però non è bastato a far ripartire il dialogo. Vediamo perché. Per il Segretario Generale dell’Ugl Metalmeccanici, Antonio Spera: “Il protocollo di intesa che ci ha presentato il governo è irricevibile: non prevede garanzie occupazionali solide, né alcun riferimento ai lavoratori dell’indotto. Abbiamo dunque ritenuto che non ci fossero le condizioni per la prosecuzione del tavolo”. Spera sottolinea inoltre che: “ArcelorMittal nel 2023 resterà con 8500 dipendenti: anche con l’entrata della newco creata da Invitalia e con le risorse in dotazione alla vecchia Ilva, migliaia di lavoratori resterebbero comunque fuori dal perimetro occupazionale garantito”. “Rispetto all’ultimo incontro– conclude il sindacalista – i nuovi punti messi sul tavolo non soddisfano ciò che abbiamo ripetutamente richiesto, ovvero la salvaguardia di tutti e il passaggio in continuità da Ilva ad ArcelorMittal dei diritti acquisiti dal punto di vista normativo e salariale. Ribadendo che nessun lavoratore dovrà pagare il prezzo dell’attuale situazione, l’auspicio è che ci siano aperture da parte dell’azienda e che, con la costituzione del governo, si possa intavolare una vera trattativa su rinnovate basi”.
La proposta del governo uscente, dunque, fa acqua da tutte le parti. Per convincere la multinazionale dell’acciaio a rilevare il sito di Taranto era stata data sin dall’inizio mano libera sul taglio del personale. Andava comunque scongiurato il rischio di un grave conflitto sociale. Si è pensato così di trasferire millecinquecento addetti a una nuova società di servizi denominata “Società per Taranto” costituita da Ilva e Invitalia. A quest’ultima spettava il compito di trovare “soluzioni per dare prospettive stabili a tempo indeterminato ai lavoratori rimasti in carico all’amministrazione straordinaria”. Se dopo dodici mesi gli operai in esubero non avessero trovato un’occupazione stabile, Invitalia si sarebbe impegnata “ad individuare le soluzioni in grado di dare prospettive occupazionali stabili a tempo indeterminato ai lavoratori rimasti in carica all’amministrazione straordinaria”. Inoltre, per ben duemilatrecento dipendenti che rimanevano dipendenti della “vecchia Ilva” venivano stanziati duecento milioni di euro per esodi volontari con doti fino a 100mila euro e 5 anni di cassa integrazione. Questo era in sintesi la bozza d’accordo redatta dal ministero dello Sviluppo Economico. In pratica il taglio del costo del lavoro a beneficio di Arcelor Mittal veniva scaricato sulle spalle dei lavoratori tarantini e sulla fiscalità generale. Ora la palla passa al prossimo governo con la speranza che non ci faccia rimpiangere il duo Padoan-Calenda.
Salvatore Recupero
Ilva: sindacati sul piede di guerra contro il piano di Calenda
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