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Musica (conformista) e concerti (in nero): così i centri sociali fanno business

by Cristina Gauri
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In tempi in cui è tornato sotto alla luce dei riflettori il sistema opaco con cui i centri sociali fanno cassa, non sarà male rileggere questo articolo pubblicato sul Primato Nazionale di marzo 2018.

Cosa è successo ultimamente alle scene musicali underground, all’indie, al Diy, a tutte quelle realtà autoproclamatesi «alternative»? Semplicemente nulla, in quanto non sono mai state tali. La cosiddetta musica sotterranea – formata originariamente da nicchie comunitarie che si presentavano come radicalmente antagoniste rispetto alle istituzioni, alla cultura e alla musica commerciale – è stata negli anni fagocitata all’interno delle logiche capitalistiche, passando ideologicamente dalla ribellione contro gli schemi imposti da società e star system a un ribellismo preconfezionato e alla più totale adesione alla dottrina del politicamente corretto.

Centri sociali (poco) antagonisti

Queste velleità, infatti, non hanno mai trovato realmente riscontro pratico e abbiamo assistito, all’interno delle succitate comunità, alla desolante e un po’ beffarda replica in miniatura dei codici che governano il mainstream, tanto invisi – almeno a parole – agli alfieri delle «sottoculture». Così vediamo i centri sociali (due esempi su tutti: Leonkavallo a Milano e Brancaleone a Roma, passando per la miriade di Club Arci sparsi su tutta la Penisola) trasformati in locali che a tutti gli effetti riprendono le dinamiche commerciali, con un uso ipocrita dello pseudo-ribellismo come alibi culturale per mascherare la concorrenza sleale ai locali in regola: non dovendo sostenere le stesse spese e tassazioni di un’attività commerciale a norma, infatti, i Csa possono tenere i prezzi a un livello «popolare» e, di conseguenza, attirare più clienti.

Figli del capitalismo

Non vale nemmeno l’obiezione sollevata dai più, secondo la quale vi trovino spazio tutti quei progetti musicali che altrimenti non avrebbero collocamento: semplicemente, queste strutture occupano capitalisticamente gli spazi interstiziali non ancora raggiunti dal mainstream, rispondendo quindi a logiche di mercato universali.

A riprova di ciò molti progetti di musica underground finiscono per pubblicare anche su major – cedendo quindi al teoricamente odiato compromesso – per poi venire metabolizzati dal sistema e piegati alle logiche del politically correct e della globalizzazione. Di conseguenza mutano i testi, improntati su tematiche da open society o da concessione universale di ogni sorta di diritti civili. Si veda l’esempio del punk negli Usa o degli Assalti Frontali che, dagli esordi antagonisti, approdarono su BMG nel 1999 e recentemente hanno pubblicato un’agghiacciante «Rap della Costituzione».

Intolleranti ed esclusivi

Pur millantando tra i loro valori fondanti la libertà assoluta di espressione e il rispetto delle opinioni altrui, queste nicchie non tollerano alcuna forma di dissenso o di eterodossia e, anzi, tendono a isolare ed espellere chiunque abbia visioni realmente non conformi: ciò significa che questi sottoinsiemi elaborano un prodotto, lo mostrano, lo vendono e lo proteggono da qualunque forma di dissidenza (leggi: pensiero autonomo) che potrebbe metterne a rischio la vendita. Per l’artista genuinamente libero, l’unica evoluzione possibile è quella di rifiutare il supporto di questo genere di realtà e trovare autonomamente la propria strada.

Cristina Gauri

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2 comments

Fascistello pentito 22 Maggio 2019 - 5:57

Vi dovreste chiamare il PrimatE Nazionale. Ah Cristì ma che hai scritto ? In culo t’entra in testa no eh…

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Aveva 6 chili di droga in casa, arrestato cantante antifascista di Assalti Frontali. Lui si giustifica: “Non sto lavorando” – Notizie Dal Mondo 31 Ottobre 2020 - 5:56

[…] questo periodo non lavoro, non faccio concerti, devo arrangiarmi in qualche modo…“. Giustamente, da bravo antifascista militante, invece di scendere il piazza e protestare o fare il rider come i proletari, spaccia (e […]

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