Roma, 5 mar – Almeno un miliardo di introiti. Le aspettative prospettate da Vittorio Grilli, ministro dell’Economia durante il governo Monti, erano le più rosee. A consuntivo, meno della metà: poco più di 300 milioni di euro, per un deficit quindi di almeno 700 milioni. Nel 2014, secondo il dirigente del dicastero Vieri Ceriani, le previsioni alzano l’asticella tra i 350 e i 400 milioni. Se il disallineamento dovesse mantenersi, è probabile quindi che si scenda ancora sotto il magro bottino dell’anno scorso.
Questi i risultati della tassa sulle transazioni finanziarie, meglio nota come “Tobin tax” dal nome del suo ideatore, il premio Nobel per l’economia James Tobin. L’idea sottostante all’imposta è quella di tassare ad un’aliquota compresa tra lo 0.05% e l’1% tutte le transazioni valutarie, in modo da evitare speculazioni di brevissimo termine. Obiettivo ultimo la stabilizzazione del mercato dei cambi. Con il passare del tempo dall’idea originaria si passa, per analogia, ad estendere l’ambito di applicazione a tutte le transazioni finanziarie che avvengono su mercati regolamentati e no.
La legge di stabilità del 2013 (legge 228/2012) ha introdotto l’imposta nell’ordinamento italiano e prevede diverse aliquote a seconda dello strumento tassato. Si va da un minimo dello 0.02% a valere sugli scambi ad alta frequenza (il cosiddetto high frequency trading) ad un massimo del 0.22% sulla compravendita over the counter e cioé al di fuori dei mercati regolamentati, passando per il 0.12% su azioni e strumenti partecipativi. La seconda e la terza aliquota scendono poi al 0.2% e 0.12% a partire da quest’anno.
Il livello della tassazione si colloca così al di sopra dei progetti di studio elaborati dalla Commissione Europea che tenta da anni una possibilità di integrazione tra i mercati continentali. Nonostante la strutturazione adottata, i risultati sono stati tuttavia al limite del fallimento. Perché è vero che i 300 milioni di incasso sono sempre una boccata d’ossigeno per le finanze di via XX Settembre, ma questo ha comportato allo stesso tempo un crollo nei volumi di Piazza Affari di almeno il 20%, pari a più di 15 miliardi al mese. Ricchezza finanziaria e quindi sulla carta, ma pur sempre trasmigrata verso altre piazze dove è possibile operare nella zona grigia. E questo vale per i grandi investitori organizzati su scala internazionale, ma non per il piccolo risparmiatore italiano che -avendo difficilmente la possibilità di fare trading a Londra o New York- si è trovato con un’ulteriore tassa sui propri impieghi che non certo vivono di speculazione.
Di fronte alle cifre impietose, un emendamento a firma del sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba (Pd) prevedeva di abbassare le aliquote e allo stesso tempo allargare la platea delle operazioni interessate. L’emendamento è stato ritirato all’ultimo. Prodromo forse ad un ripensamento sull’intera tassa che, dovunque è stata applicata, non ha mai rispettato le attese e finendo -come in Svezia, già 30 anni fa- per venire cancellata nel giro di pochi anni.
Filippo Burla